Roma Il Louvre della fotografia

La galleria-archivio di Giuseppe Casetti nel cuore del Ghetto conserva un patrimonio di 200mila foto storiche che documentano tutta la cultura italiana del Novecento.      

articolo del Il Sole 24 Ore   DOMENICA -13 settembre 2015

di Laura Leonelli

Entri e ti accoglie André Breton, dietro di lui Tristan Tzara ti porge la mano, di gesso, e fissando l’occhio sulla costa di un romanzo gotico capisci che sta per arrivare George Bataille. E rimani lì muta, in attesa che l’incantesimo svanisca, quando senti una voce gentile e fiabesca, la voce di Giuseppe Casetti che si leva dal fondo della sua galleria-libreria-archivio, luogo delle meraviglie unico al mondo, e con garbo ti assicura che ciò che vedi, senti e ricordi è vero ed è qui, in via della Reginella 8a, cuore del Ghetto di Roma. Non mille, né diecimila, ma duecentomila fotografie ti osservano dalle pareti e chiuse nei raccoglitori ti invitano a entrare nel più incredibile mosaico surrealista, sopravvissuto alla fine di ogni avanguardia. C’è la ruota di Duchamp, ritratta da Vittorugo Contino, e c’è l’ombra che sfiora il corpo di una giovane donna nello scatto anonimo del suo amante. C’è il Signor Bonaventura e Cenerentola, foto di scena del 1942, c’è Indro Montanelli nel magnifico scatto di Paolo di Paolo, e c’è Orson Welles a Stazione Termini, Alfred Hitchcock a Formia, e c’è un corpo senza testa perché la Reflex non era ancora nata e perché invece l’inconscio, da sempre, vorrebbe sfuggire al controllo della ragione. E tra queste mura ci riesce.

Entrare nel Museo del Louvre – questo il nome esagerato e ironico che Casetti ha dato alla sua Wunderkammer – equivale a immergersi in un oceano di immagini e nell’oceano biografico di un uomo di 65 anni, bello ed elegante, che si è tuffato con gioia tra onde di libri destinati al macero, dossier di archivi abbandonati e album di famiglie scomparse. E da ogni apnea, da ogni morte vissuta per pochi secondi, Giuseppe è tornato in superficie con una perla rara. Così fin da ragazzo, quando non ancora diciottenne, hippy, anarchico, liceo artistico, frequentava una bancarella di libri di fronte a casa e ascoltava le storie fantastiche del suo proprietario, Fanfà, rivoluzionario corso e vecchio comunista. «Un giorno sono lì a chiacchierare con Fanfà, quando vedo un camion che letteralmente semina libri per strada. Corro, raggiungo l’autista, chiedo dove sta andando e la risposta mi ha cambiato la vita», racconta Casetti, mentre sfoglia l’album fotografico della costruzione dell’Università La Sapienza nel 1933, seguito dalle immagini dell’occupazione dello stesso ateneo nel ’68, firmate da Adriano Mordenti. Il luogo dove tutto finisce e tutto inizia, biografie di grandi autori e sogni di futuri librai, è il macero. «Erano anni in cui tro- vavi l’edizione intera dell’Orfeo vedovo di Savinio, buttata in un angolo insieme a erbari del ’500. E lì, più per istinto che per cultura, ho iniziato a raccogliere libri importanti e a immaginare una vita diversa». L’occasione arriva nel 1975, quando Casetti apre nel quartiere di Monte Sacro la libreria Le Clochard, «dove ho organizzato una delle prime mostre sul Futurismo con i libri del nipote di Marinetti, e ai tempi nessuno voleva considerare questo materiale perché era in odore di fascismo. In compenso i fascisti minacciavano ogni giorno di bruciarmi la libreria perché ero di sinistra e avevo i capelli lunghi».

Due anni dopo Giuseppe, insieme a Paolo Missigoi, cambia indirizzo e apre in via di Parione uno dei luoghi simboli di quel periodo: la libreria Maldoror. Numi tutelari, Leonardo Sinisgalli e Giordano Falzoni. Ma questa volta al capolavoro di Isidore Ducasse non s’ispirano soltanto i libri – «da noi veniva Massimo Cacciari a comprare le prime edizioni di Nietzsche, pubblicate da Bocca negli anni ’20 e poi finite nella carta straccia» – ma anche le immagini. L’occhio e l’intuizione guidano Giuseppe nella miniera di Porta Portese, «e un giorno mi è capitato di trovare una copia del Fotodinamismo Futurista di Bragaglia, edita nel 1911, quando ancora Cal- vesi affermava che era del 1912». Accanto ai volumi storici entrano nei raccoglitori, secondo le categorie del fantastico, le prime foto sfuocate, le doppie esposizioni, gli interni di case e gli interni del corpo umano, e ancora i salti, i disastri, i manichini, le ombre, «foto insignificanti se prese singolarmente, ma se moltiplicate per mille allora diventano un mondo parallelo», prosegue Casetti. Un giorno, in questo secondo sistema solare, entra una giovane fotografa americana, Francesca Woodman. Giuseppe ne riconosce la genialità e organizza a Maldoror la sua prima mostra. Forse non è una coincidenza se nel 1981, anno del suicidio della Woodman, smetta di vivere anche la libreria. Troppo di tutto.

Pausa.
Quattordici anni dopo è di nuovo un’immagine a rimettere in moto la vitalità nevrotica di Casetti. Ma non è un’immagine di carta, è una nuova immagine di sé, creativa, solare. Il 9 aprile 1995 Giuseppe inaugura il Museo del Louvre (e in occasione dei vent’anni di attività è aperta fino al 1 ottobre la mostra Francesca Woodman. Winter Cooking). La caccia riprende e uno dopo l’altro Casetti recupera nuovi tesori, dall’archivio di Guglielmo Coluzzi, patron della Italy’s New Photo, agenzia storica della Dolce Vita, all’archivio dell’Astrolabio, e sono le fotografie di Mario Dondero, Nicola Sansone e Calogero Cascio. Quindi è la volta di un corpus notevole, 140.000 negativi e 6000 immagini dell’archivio del fotografo di Paese Sera, Marcello Salustri, insieme a 500 lastre delle magnifiche inchieste di Osvaldo Restaldi, «tutta Roma anni ’50, le borgate, la povertà, le proteste, i cartelli Volemo casa», racconta Casetti. Ma è impossibile fermarsi perché i dossier prendono vita, suggeriscono percorsi, per esempio i reportage delle prime donne reporter, da Clara Falcone, firma di Tempo, a Carla Menegol, fotografa di Monica Vitti, a Leonia Celli, interprete raffinata di cinema e moda. Oppure il tema diventa l’archi- tettura “di un giorno”, dal padiglione della casa editrice Il Cavallino alla Biennale di Venezia del 1950, firmato da Carlo Scarpa, alla sequenza dell’impacchettamento di Porta Pinciana, opera di Christo nelle im- magini inedite di Vittorio Biffani. O ancora sono gli incontri bizzarri, Luchino Visconti e Mina, Gina Lollobrigida e Marilyn Monroe. E di nuovo tantissimo cinema nelle immagini di Aldò, prima che diventasse direttore della fotografia, poi di Pierluigi, di Secchiaroli e di Geppetti con Anita Ekberg che punta arco e freccia contro i paparazzi appostati fuori dalla sua villa.

Giustamente l’attrice si difendeva dall’eccesso di sguardi. Ma chi ama la fotografia, la storia, la moda, il cinema, l’architettura, l’urbanistica, la sociologia, la letteratura, il giornalismo, l’arte, il mistero e i fantasmi, tutti noi dovremmo difendere questo incredibile patrimonio fotografico, nato dalla passione di un vero artista che da solo ha ricostruito la vita di un secolo. Difendere duecentomila foto, oggi, vuol dire trovare una destinazione istituzionale a questo straordinario giacimento di cultura. Dal macero e dall’oblio non ci si salva due volte. E se fossero gli stranieri a farsi avanti, nel vuoto nostrano, ben vengano.

In alto: (provino a contatto) Orson Wells con la famiglia arriva alla stazione Termini di Roma