LA PERSISTENZA DELL’INVISIBILE: “DIANA RABITO PERFORMER, ARTISTA, POETESSA, AVIATRICE, ATTRICE.” ALLA LIBRERIA GALLERIA IL MUSEO DEL LOUVRE
di Gianlorenzo Chiaraluce
La protagonista di questa storia svetta verso il cielo con i piedi a mezz’aria. Non tocca terra, perché il suolo rimane il luogo privilegiato di coloro che non hanno una visione. Si materializza, austera, come la fulminea visione di una santa o di un fantasma, che ha preso corpo all’improvviso davanti a una parete bianca. Il viso rivolto verso l’alto fissa un punto imprecisato, quasi a voler invitare lo spettatore a cercare con gli occhi ciò che non si vede. I trampoli a cui sui appoggia rivestono l’immagine di quella stessa atmosfera malinconicamente circense di uno dei periodi più dolci e inquieti del giovane Picasso. Diana Rabito è catturata così dall’obiettivo rigoroso e magico di Claudio Abate, il fotografo che ha saputo rendere eterna l’istantaneità dell’effimero. Giovanna dei trampoli è il titolo della foto in bianco e nero, che documenta una performance del 1973 con cui si apre idealmente la mostra “Diana Rabito Performer, Artista, Poetessa, Aviatrice, Attrice.”, curata da Giuseppe Casetti in quella piccola camera di tesori inaspettati che è la libreria galleria il museo del louvre, studio bibliografico e galleria al centro di Roma. La Rabito, nata nel 1943 e scomparsa nel 2013, ha tenacemente fatto della sua vita la sua arte e la sua parabola, utilizzando il proprio corpo come strumento affilato con cui espletarla, prima come attrice, poi come scrittrice, pittrice (già dagli anni Sessanta) e performer. La mostra ha il merito di raccogliere una serie di opere e documenti poco noti, ricostruendo parte del profilo di un’artista finora piuttosto trascurata dalla storia dell’arte, a riprova delle zone opache che essa presenta e su cui andrebbe fatta più luce. Un corpus che, nel suo complesso, aggiunge ulteriori tasselli alla produzione artistica e performativa al femminile negli anni Settanta, complicandone gli esiti e aprendovi ulteriori margini di riflessione. Nonostante infatti le diverse mostre in sedi prestigiose, come la Galleria Arco d’Alibert o il Palazzo delle Esposizioni di Roma, la Biennale dei Giovani di Parigi e la XLII Biennale di Venezia, o i numerosi testi scritti su di lei di critici tra cui Renato Barilli, Franco Solmi e Achille Bonito Oliva, quasi mai il nome della Rabito compare tra quello dei protagonisti che hanno animato una scena così fervente, che ha rimesso in gioco gli stessi crismi del fare artistico. Una situazione che lei visse però in prima persona, stringendo rapporti personali con alcuni tra i più noti personaggi dell’epoca, tra cui Gino De Dominicis, Vettor e Mimma Pisani, Giulio Turcato e Tano Festa, come documentano diverse delle opere in mostra. Un motivo dell’assenza potrebbe essere rintracciato nel rifiuto quasi programmatico di aderire a una pratica riconoscibile e a un orizzonte mediale o tematico di riferimento. La sua attività è stata infatti governata dalle leggi dell’assoluta libertà, dall’abbandono metodico del conformismo e della maniera, cosa che renderebbe difficile, o perfino goffo, un tentativo di sistematizzazione. Più che inseguire il mito della permanenza, l’artista sembrerebbe esser stata sedotta dalla fiamma oscura e istantanea dell’erotismo, dal lirismo sottile dell’ironia e dalla logica del paradosso: pratiche impermanenti, non muscolari, destinate a galleggiare sull’acqua come una piuma, senza produrre le stesse esondazioni che genererebbe un sasso, ma un lieve sussulto che ricorda il fremito di un respiro. Forse delicato, ma così più vicino al ritmo della vita. Tra gli ambiti indagati nelle performances di Rabito uno tra questi è il rapporto retinico e carnale con l’immagine. In Incubazione della luce (1968) si serve di una lampada per condensare un fascio luminoso in un contenitore tubiforme, quasi a voler incanalare la luce quale strumento primario della visione e farne un oggetto con cui stabilire un rapporto connettivo. Con Cannibalismo retinale (1973) l’occhio, strumento con cui divoriamo la realtà, viene a sua volta offerto in pasto. In un piatto di ceramica sono sparpagliate una serie di sagome ritagliate di occhi, come le ostie di un ostensorio, per attivare un cerimoniale di voracità voyeuristica che trasforma lo spettatore in soggetto attivo e “cannibale”. Anche la dimensione più scanzonata del gioco e il retaggio dell’infanzia che tarda a esaurirsi – e che forse non si esaurisce mai del tutto – sono altri temi cui si riferiscono alcune delle sue azioni. Una tra le più epiche risale al 1972: Cielo entronauta, una performance che vede la Rabito perfino nelle vesti di aviatrice. Mentre sorvola la città di Roma con un aereo, lancia manciate di foglietti con una favola dattiloscritta, che è un inno alla potenza costruttiva della coesione. Così come nel “folle volo” di D’Annunzio su Vienna, compie una dimostrazione militare che sostituisce al carattere propagandistico l’esigenza di affermare il valore celeste della pace. Diverte immaginare il probabile stupore degli spettatori inconsapevoli dell’epoca, sconcertati dalle finalità del gesto, ma accattivati dalla pioggia di volantini e dal tocco subitaneo e paideutico della fiaba. Di nuovo in Giocattoli di guerra (1973), forse sulla scorta delle armi di Pino Pascali, mette in scena alcuni bambini vestiti alla cavalleresca, che giocano alla guerra con fionde e spade giocattolo, ribadendo lo spirito serio della dimensione ludica e quello carnevalesco della fol- lia bellica. La poetica surrealista degli oggetti è un altro degli aspetti più accattivanti nel suo alveo di riflessione: con Orgasmo in guardaroba (1968) gli appendiabiti divengono amanti furtivi, attori di un assemblaggio destinato a materializzare incontri fugaci e libertini nello spazio inconsapevole di un armadio. Un’ultima menzione per le opere su tela esposte, che coprono un periodo che va dagli anni Ottanta ai Novanta. In questa fase l’artista, tornata alla pittura, si dedica alla riproposizione di soggetti femminili carichi di pathos, forme sinuose e sensuali animate da colori accesi, composizioni sgocciolanti che sembrano liquefare l’immagine nel tumulto dell’espressione. Anche il mondo magico, quell’altrove imprecisato in cui perdersi, è un altro dei temi a cui porge l’orecchio, nel tentativo di far emergere dai quadri le energie inafferrabili dell’incorporeo, addensando alla pennellata tenue ed emozionale il filtro della tensione verso l’assoluto. Giovanna dei trampoli, come Giovanna d’Arco, è stata guerriera profetica e misconosciuta, eroina eretica e allucinata, guardiana dell’invisibile, ma soprattutto e prima di tutto artista appassionata, come nel film di Carl Theodor Dreyer o nelle femminilità scalpitanti dipinte da Carol Rama.
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