Mostra di Giuseppe Casetti libreria-galleria il museo del louvre dal 4 ottobre al 31 ottobre 2001.
Mille fotografie divise in undici sezioni: Stanze vuote, Sfocate, Ombre, Gesti, Sovrapposte, Salti, Giochi, Bizzarre, Cani, Corpi Acefali, Roma alle spalle.L’errore , la casualità, ma anche il documento, l’attimo, l0emozione di mille istantanee scattate tra il 1910 e il 1950.
Osserva Walter Benjamin che, a differenza dal dipinto, la fotografia si sottopone a un determinato e continuo lasso di tempo (di esposizione) e che questa precisabilità cronologica contiene in nuce il suo significato politico, che giunge a leggibilità in un momento determinato. Riproduce inoltre i due aspetti dello choc, l’incontro con la macchina e la sterilizzazione dell’esperienza vissuta, dell’aura, a favore di quel senza-espressione che rende l’esperienza non vissuta espressamente ridimibile nella memoria. Per questo, come scoprirono i surrealisti, energie rivoluzionarie appaiono nelle cose invecchiate e le cose asservite e asserventi, nella miseria degli interni, si rovesciano in nichilismo rivoluzionario. Esse mostrano il quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano. Sono riempitivi della vita, “il mare di dettagli senza sapore e nettezza, che formano un’enorme distesa di poco senso”, come dice Franco Moretti nell’intervista con Francesca Borrelli pubblicata sul manifesto del 4 Ottobre.
Queste considerazioni vengono in mente a chi visiti in questi giorni la galleria-libreria romana Il museo del louvre (v. della Reginella 28), dove fino al 31 ottobre il proprietario e collezionista Giuseppe Casetti espone centinaia di fotografie anonime degli anni ’10-’40, recuperate sulle bancarelle e negli sgomberi di appartamenti, testimoni non illustri (per autore e contenuto) della vita quotidiana in un’area genericamente centro-meridionale, nella dimessa veste bianco-nero o seppiata, tranne una finale acida polaroid a colori, forse inizio anni 50. La catalogazione tematica ne marca la serialità non autoriale, la programmatica ingenuità ricorsiva (Roma alle spalle, gesti, giochi, stanze, insieme, salti, interni casa), fino alla deliberata predilezione per gli “errori” (ombre proiettate dal fotografo sul soggetto, sfocature, sovraesposizioni e sovrapposizioni di immagine), che culmina nelle classiche prese acefale, in cui la figura è tagliata dall’inquadratura. La politicità è qui inversamente proporzionale all’intenzione artistica (o direttamente proporzionale al suo fallimento tecnico), la realtà ci balza incontro nella ripetizione e nel conformismo inintenzionale. Il vero arriva contromano dal feticcio frigorifero, dai bambini che bevono alla fontanella, dai salti sospesi e tentati, dalle mani sui fianchi o dagli allacciamenti nel ballo, dal cavaliere senza testa su un placido cavallo, dalla suora orante. Vite di cui non sapremo mai niente, documentate approssimativamente, nel limbo di promesse inafferrabili di felicità e la cui redenzione non può essere più privata. Perché scrivere? Perché non limitarsi a far vedere delle fotografie? La citazione di Brancusi sull’invito è un’apologia del montaggio, mette in rilievo come un marcatore le rughe di una vita ormai parte di noi, una volte che quelle foto, non nostre, vi sono entrate, allineate come farfalle o soldatini, prigionieri di una caccia, come in ogni collezione che si rispetti.
Augusto Illuminati