Giuseppe Casetti LA CAMERA SCURA ESPLORAZIONI E RICERCHE SULLA FOTOGRAFIA COME FORMA DI VITA

Giuseppe Casetti LA CAMERA SCURA ESPLORAZIONI E RICERCHE SULLA FOTOGRAFIA COME FORMA DI VITA 

Mostra a cura di Valerio Trapasso Catalogo con un testo di Valerio Trapasso

Inaugurazione mercoledì 28 ottobre alle ore 18 Dal 28 ottobre a mercoledì 28 novembre 2020

 

Le Petit Verre

Ioduro di Potassio, cloruro di sodio, silicio e ancora una soluzione di nitrato di argento, una camera obscura dove dosare, filtrare e flirtare con la vita, le donne e la luce. Questa è una mostra, una storia di apparizioni o una fabula ermetica? Che entrando nel Museo di Giuseppe Casetti si faccia sempre un po’ di Alchimia beh questa è cosa nota a non pochi iniziati. Casetti forma e trasforma il ‘900 intero, trova e rifonda immagini dal fondo di una valigia abbandonata, risarcisce esistenze scomparse, abolisce l’oblio, ti cambia gli occhi, ti scambia lo sguardo. E cosa può accaderti visitando il suo multiforme studio situato al numero 8 di via della Reginella? Beh questo non lo sai mai davvero: accedi in una libreria e sei dentro una stanza dei giochi, una camera degli specchi, una camera del Sud, un caleidoscopio, una navicella spaziale o forse sei dentro la preghiera di un rabbino di passaggio, nella malinconia di un turista appena partito oppure nel sogno della contessa di Castiglione “in persona”. Casetti rischia e mischia le carte che son tarocchi d’avanguardia e trasmuta una galleria in museo immenso, diffuso e cangiante, a sua volta Opera Magna. Una galleria mobile, dove persino le mura traslocano, un numero civico che si sposta da un lato all’altro della via, sale, scende, si raddoppia, si restringe, ma lui, Giuseppe Casetti in realtà è sempre lì fermo, immobile e dal suo avamposto a due piani nel Ghetto di Roma ha visto e visitato il mondo. Giuseppe Casetti da quasi 50 anni colleziona, cataloga, espone fotografie; fotografie di gente comune, anonima, scomparsa e lo fa per compiere un rito, una magia: viaggiare nello spazio e nel tempo. Guai a dirlo in giro, guai a dirlo proprio a lui! Centinaia di migliaia di fotografie passate dalle sue mani e sotto il suo sguardo mai distratto, mai annoiato, mai automatico. Quante volte ho visto Casetti seduto tra migliaia di scatti con guanti di cotone bianco (una forma di rispetto, una forma di difesa) afferrare una foto alla volta e creare così una connessione con quelle esistenze sconosciute, quegli spazi misteriosi perfettamente ritagliati e imprigionati sulla carta. Ogni fotografia diventa così una finestra su infiniti universi; una finestra da cui non si limita a sbirciare (come vedete i guanti non sono serviti a nulla), lui scavalca il davanzale e vuole sapere, non spiare, Giuseppe Casetti non è un voyeur, è un esploratore avventuroso. E i suoi resoconti sono cronache appassionate, ricche di dettagli; Casetti può così riferirti quanto quella tenda di broccato in fondo alla sala fotografata sia pregiata, quel sugo condiviso la notte di Natale saporito, quei sorrisi da luna di miele davvero sinceri. Immaginate che tutto questo per il mercato fotografico si chiama solo “found photography”, “photo trouveè”, “fotografia anonima”, ma da queste parti voi capite nulla è anonimo semmai resta segreto, ma ora Casetti rivela e condivide l’Opera creando un percorso espositivo che è un viaggio attraverso le ragioni stesse del processo fotografico: “immortalare l’attimo” non è solo una locuzione di senso comune, ma lo svelamento dell’anima stessa della fotografia. Giuseppe Casetti vuole suggerire quello che teoricamente tutti sanno ma che forse non si ha il coraggio di dire, ovvero che in quella lastra di vetro-silicio e sali d’argento è inciso fisicamente quel momento esatto di vita e la luce si è fatta largo tra il buio, la materia e gli elementi per fissare, imprimere, impressionare la vita di quel preciso istante. Non è un modo retorico e iperbolico di celebrare la fotografia: le particelle luminose che hanno generato le immagini qui esposte in “Camera Scura” sono esattamente quelle che circolavano nell’aria di quelle giornate di circa cento anni fa e presenti unicamente in quei luoghi. Da queste fotografie non emergono solo i corpi delle donne protagoniste con i loro décolleté, le loro camelie, i loro giochi, in queste lastre di vetro sono rimasti fissati anche tutti i pensieri, le vanità, le malinconie, le gioie che quelle donne elaboravano in quell’esatto momento. Casetti sfida così l’assunto per il quale la fotografia, per prima, ha abolito l’aura grazie alla sua riproducibilità illimitata, e se è vero che infinite stampe si possono fare di quel preciso scatto, certo non si può dire lo stesso per ciò che è rimasto prigioniero all’interno della lastra di vetro: un frammento unico e irripetibile di vita e di anima, una vita che seppur cristallizzata rimane lì sempre in potenza, sempre pulsante, pronta a riprendere a battere nell’immaginazione di chi la sta osservando. Casetti ha così riprodotto il laboratorio ermetico che finora dimorava tra i suoi occhi allestendo al secondo piano della sua galleria una camera obscura dove palesare la sua Imaginatio. Un percorso che il visitatore deve attraversare nella penombra dello spazio espositivo appena illuminato da 21 light box, 21 lanterne magiche che ci rivelano esclusivamente volti e corpi di donne, un caleidoscopio di vite anonime, straordinarie e immortali.  Robert Fludd, filosofo ermetico del XV secolo, scriveva: “l’occhio è una copia del mondo, il fulcro di ogni cosa al cui interno può essere visto il mondo intero”; un universo fantastico che Casetti ha declinato al femminile – un omaggio all’aspetto lunare della fotografia che trova la sua ricaduta spaziale nell’Uterum generativo della camera obscura e la sua ricaduta fotochimica nell’Argento: la Regin(ell)a dei metalli. La scelta di esporre da parte di Casetti dei negativi su lastra di vetro non è stata casuale e non è stata neppure l’ostentazione materica di un ritorno alle origini della fotografia, il compiaciuto omaggio ad un passato analogico; il vetro non è un elemento fragile bensì potente, opaco, lucido, riflessivo, riflettente ed è per gli alchimisti infatti la “prima materia” dentro la quale si compie e si fissa l’Opera; il cosiddetto vetro è il Vaso, l’ampolla creatrice. L’immagine fotografica emerge attraverso una trasformazione chimica dei sali bianchi d’argento in argento metallico nero, un processo fotografico anche detto “annerimento diretto” e che ha un precedente alchemico chiamato melanosi: le ombre della Nigredo per liberarsi e accedere allo stato luminoso, manifesto dell’Albedo, devono immergersi in un bagno chiamato fissatio. Le ombre della Nigredo non richiamano dunque le “immagini latenti” impresse sui supporti emulsionati in attesa di essere colpite dalla luce e visibili soltanto mediante l’azione chimica del bagno di sviluppo? La fotografia come l’alchimia si avvale di strumenti e regole mutuate dalla chimica e dalla fisica per portarci su un altro terreno: fare della nostra immaginazione uno strumento di trasformazione attiva di noi stessi. L’esercizio artistico praticato da Casetti in questi decenni ha prodotto chiaramente un’opera segreta, espansa e diffusa: le scoperte avventurose di archivi fotografici, album di famiglia, schedari fotosegnaletici, negativi di ogni epoca e formato, la loro selezione sino alla loro rinnovata esistenza in contesti espositivi sono tutti procedimenti trasmutativi che possiamo chiamare readymade, ma soprattutto possiamo definirli esemplari di qualcosa di molto più inintelligibile, una ricerca che ha a che fare con la visione stessa del mondo e di se stessi. Se Giuseppe Casetti abbia praticato davvero dell’Alchimia questo non è chiaro; probabilmente l’ha fatta, come diceva Marcel Duchamp – uno che da queste parti è un po’ il santo patrono – nell’unico modo oggi possibile: senza saperlo. Quello che resta allora è un magnifico sguardo, una fresca finestra, un Grande Vetro composto da tanti più piccoli, qui esposti e illuminati per svelarci una volta di più l’anima stessa e immortale della fotografia: una Grande Opera dentro la quale lo sposo è messo a nudo dalle sue nubili donne.

Davanti all’obiettivo sorridete pure; è per sempre!